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Politica energetica nazionale

di G.M. e G.P.

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Giovannini (ASviS): l'alternativa è tra sviluppo sostenibile e guerra

Uomo dell'anno 2019 della Staffetta. “Bene che il Green Deal venga dal Mef e non dal Mise o dal Minambiente". ASviS come “rivincita” dei corpi intermedi: “senza gli attacchi di Renzi non sarebbe nata”. Sussidi ambientalmente dannosi: “il Governo non deve fare cassa né darne l'impressione, ha sbagliato drammaticamente”

Politica energetica nazionale

“Lo sviluppo sostenibile è una questione di giustizia tra generazioni. In passato, quando la situazione diventava insostenibile si faceva una guerra, si capiva chi aveva vinto, e poi si ricostruiva, con costi terribili. In questo momento stiamo provando a evitare una guerra, che magari non si combatterà con le classiche armi ma in termini di povertà e emarginazione”. Ne è convinto Enrico Giovannini, professore ordinario di Statistica e Economia, già ministro del Lavoro e presidente dell'Istat e fondatore nel 2016 di ASviS, Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, che raggruppa oltre 200 realtà della società civile ed è divenuta un punto di riferimento per il dibattito e l'elaborazione delle politiche per la sostenibilità anche dell'attuale Governo. Nella sua intervista da Uomo dell'Anno 2019 della Staffetta, Giovannini affronta alcuni dei nodi più caldi del momento. “Bene che il Green Deal venga dal Mef e non dal Mise o dal Minambiente; ASviS come “rivincita” dei corpi intermedi: “senza gli attacchi di Renzi non sarebbe nata”; sussidi ambientalmente dannosi: “il Governo non deve fare cassa né darne l'impressione, ha sbagliato drammaticamente”.

Partiamo dalla trasformazione del Cipe in Cipess, Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile, approvata con il Decreto clima. L'idea fu una delle prime proposte dell'ASviS, nel 2016. Perché c'era bisogno di questo cambiamento? Quali dovranno essere i prossimi passi per passare all'operatività?

Abbiamo insistito tanto perché già in Italia spendiamo relativamente pochi soldi per investimenti pubblici. E non possiamo certo permetterci di spenderli in progetti che tra qualche anno dovremo smontare perché ci renderemo conto che sono basati su tecnologie non adatte o che favoriscono un certo tipo di attività destinate a sparire. Fin dall'inizio, dunque, abbiamo spinto per la trasformazione del Cipe. Il testo che è stato approvato prevede questa trasformazione dal primo gennaio 2021, perché il 2020 deve essere dedicato al cambiamento delle regole in base alle quali si valutano gli investimenti pubblici. Non a caso, come ho detto più volte, la resistenza espressa da alcuni negli anni passati era dovuta al fatto che erano preoccupati che una volta cambiato il nome si dovessero cambiare i criteri di decisione sugli investimenti. Questo è esattamente l'obiettivo. Ora questo lavoro va fatto. Per questo abbiamo offerto a Palazzo Chigi la nostra disponibilità ad aiutarli in questa transizione. Quello che ci speriamo è che nel corso del 2020 si facciano tutte le valutazioni di metodo, in modo che dal 2021 si parta. La ragione per cui è così importante è che dal 2021 partirà anche il nuovo ciclo dei fondi europei. Poiché il Cipe è il veicolo attraverso cui passano anche tutti quegli investimenti, saremo finalmente allineati, anche con la nuova impostazione della Commissione europea, che va esattamente in questa direzione.

A proposito di Europa, è stato appena trovato un accordo sulla cosiddetta tassonomia della finanza sostenibile, l'elenco dei criteri e delle finalità che definiranno gli investimenti “verdi”. C'è un collegamento? Come giudica questa novità?

Naturalmente le cose sono collegate e siamo molto contenti che il trilogo tra Consiglio, Parlamento e Commissione europea sia finito positivamente. In questo modo, durante il 2020 verranno definiti tutti gli aspetti tecnici per rendere operativa questa nuova classificazione, così che dal 2021 i diversi investimenti vengano classificati come “verdi verdi”, “verdi arancioni” e “rossi”: investitori e cittadini potranno valutare se gli investimenti vanno nella direzione auspicata dello sviluppo sostenibile. Sono tutti mattoncini connessi che dovrebbero, da ora in poi, farci prendere le decisioni in modo migliore.

C'è stata una lunga trattativa in materia, soprattutto per quanto riguarda gli investimenti nel nucleare e nel gas naturale. Le Infrastrutture per il gas, ad esempio, potrebbero servire alla diffusione dei gas rinnovabili come idrogeno e biometano, e devono dunque essere mantenute efficienti, anche dal punto di vista dell'afflusso di capitali. Dove sta la linea di demarcazione per evitare il “lock in”?

Non so darle una risposta precisa senza avere a disposizione il nuovo Piano integrato energia e clima che tra qualche giorno dovrebbe essere inviato alla Commissione europea, e che dovrà essere in linea con l'impegno che il Presidente del Consiglio ha preso di arrivare alla carbon neutrality entro il 2050 anche in Italia. Le faccio l'esempio delle simulazioni che noi abbiamo fatto due anni fa nel rapporto ASviS 2017 attraverso un modello di equilibrio economico generale, simulando l'impatto di una serie di politiche sui diversi goal da qui al 2030. Avevamo simulato la Strategia energetica nazionale e altre politiche, per un totale di 5 simulazioni. Uno dei risultati interessanti è stato che quando le si simulano tutte insieme, l'Accordo di Parigi, la Sen, Industria 4.0 e così via, si vede che molti dei trade off scompaiono perché mentre si fa un'operazione cambiano altri parametri. Mettendoli tutti insieme venivano fuori due indicatori: uno che migliorava straordinariamente, l'altro che peggiorava drammaticamente. Quello che migliorava era il rapporto debito pubblico/Pil, perché l'insieme di queste politiche generava un aumento del Pil molto forte. Così forte che anche applicando la Sen e gli accordi di Parigi non arrivavamo a tagliare le emissioni. Questo significa che le ipotesi poste alla base della Sen erano di una crescita molto contenuta. Per questo non so risponderle. Se guardiamo solo una politica separata dalle altre e non pensiamo che la transizione energetica, il passaggio all'economia circolare anche rapido generi quell'aumento di Pil che alcuni ritengono possibile, è chiaro che il sistema non regge. Che il gas sia riconosciuto come uno strumento utile per la transizione non c'è dubbio, ma se pensiamo di riusare quelle infrastrutture, vanno costruite pensando di riusarle. In sintesi: la mancanza di una strategia energetica nazionale adeguata agli obiettivi europei mi impedisce di dare una risposta.

In questo contesto la neutralità tecnologica è un principio ancora valido?

Questo è un problema che non può essere risolto soltanto sul piano tecnologico ed energetico ma va visto anche in un'ottica strategica, geopolitica. Il futuro è pieno di potenziali tensioni, per esempio per l'acqua – come dice il Papa, la prossima guerra mondiale sarà combattuta per l'acqua – e noi non possiamo non porci anche il problema di una certa autonomia energetica rispetto ad altre aree del mondo. Un discorso che vale per esempio anche per le batterie al litio. Bisogna fare delle ipotesi, altrimenti il sistema diventa troppo complesso. La mia impressione, pur non essendo un esperto di tecnologia e di tecnologie energetiche, è che siamo vicini a delle non linearità che possono generare opportunità che prima non c'erano. Mercedes e altri, ad esempio, stanno investendo sulle batterie al potassio. Ma se un domani divenisse praticabile produrre energia dall'acqua attraverso l'elettrolisi, anche le batterie al potassio sarebbero superate. L'impressione è che l'accelerazione sia tale che non so darle una risposta.

Un altro dei problemi della transizione è che si tratta di una questione globale sulla quale non emerge un'egemonia delle politiche europee. E questo rende più deboli e meno credibili quelle stesse politiche.

Qui ci scontriamo evidentemente con il problema della sostenibilità sociale e istituzionale, che sono secondo molti i due pilastri più “nuovi” dell'Agenda 2030. Finché ci muoviamo su economia, energia e ambiente più o meno abbiamo capito i termini della questione. Ma il tema è molto più complesso se pensiamo a come la sostenibilità sociale sia messa a rischio da una transizione troppo veloce. Stesso discorso per la sostenibilità istituzionale – come dimostrano le guerre commerciali in atto. Ho l'impressione che la Cina sia più avanti dell'Europa su tanti fronti tecnologici, anche nella logica della transizione. Se ho capito bene, dal primo gennaio 2020 tutti i soggetti pubblici cinesi devono comprare autobus elettrici. Quanti produttori di bus elettrici abbiamo in Italia? Finirà come per i pannelli fotovoltaici anni fa. Questo vuol dire che è mancata la preparazione dell'industria, per disattenzione dell'industria stessa o per disattenzione della politica, che non ha segnalato il fatto che saremmo andati a parare lì. Questa segnalazione ora viene in modo molto forte dalla Commissione europea. Se il Consiglio sarà altrettanto coraggioso da andare in questa direzione, se per esempio passerà la norma annunciata per la carbon neutrality al 2050, tutto cambierà, perché sapremo qual è il punto di arrivo. E bisognerà fare come fanno gli inglesi da qualche anno: settore per settore, con l'aiuto degli scienziati, degli industriali e dei sindacati si dovranno fare dei piani di transizione. Il punto è: il costo di tutto questo sarà assorbito? E da chi? Perché il vero rischio è che la reazione di chi sarà penalizzato, temporaneamente o definitivamente, può essere talmente forte da bloccare la transizione. È interessante quello che ha detto recentemente Andrea Bianchi di Confindustria: anche loro sono squeezed, fanno l'elastico tra le imprese che sono molto avanti e che li spingono a dire di buttare a mare tutti gli incentivi di un certo tipo e metterli sul futuro, e quelli che invece stanno all'estremo opposto e frenano, chiedendo di non far togliere gli incentivi perché altrimenti vanno fuori mercato.

In questo contesto, quali sono i criteri da difendere e quelli da sacrificare? Ci sarà sempre un calcolo costi/benefici e la risorsa scarsa nella transizione sono i soldi dei contribuenti.

Mi è piaciuto il modo in cui ha posto la domanda: quali dei criteri oggi esistenti dobbiamo rilassare. Io sono fortemente tentato di dire: il debito intergenerazionale. Lo sviluppo sostenibile è una questione di giustizia tra generazioni. In passato, quando la situazione diventava insostenibile si faceva una guerra, si capiva chi aveva vinto, e poi si ricostruiva, con costi terribili. In questo momento quello che stiamo provando a fare è evitare la guerra. Una guerra che magari non si combatterà con le classiche armi, tra Paesi, con gli eserciti, ma si combatterà in termini di povertà, emarginazione di una serie di soggetti. Soggetti che magari sono il terreno fecondo per far crescere una serie di ideologie che portano alla guerra. Il debito, e in particolare il debito pubblico, è qualcosa che noi pensiamo, giustamente, come qualcosa che scarica sulle generazioni future il costo di quello che facciamo oggi. Ma in un'ottica intergenerazionale dobbiamo ragionare in termini di costo/opportunità: quale costo scaricheremo sulle generazioni future se non facciamo gli investimenti adesso? È un problema di debito implicito. Già oggi questo discorso si applica quando si fanno analisi del debito pubblico sui sistemi pensionistici. Se facessimo i conti come Dio comanda sulle quantità di capitale naturale, umano, sociale, economico da cui partiamo e con cui concluderemo questa fase di transizione, forse scopriremo che il debito, che è una distruzione di attività, può essere ridotto grazie a un anticipo degli investimenti, per cui all'inizio del periodo avremo un debito pubblico che cresce (come sempre dopo ogni guerra) ma che poi riscende perché ci evita di pagare tutti i prezzi del non investimento nei decenni successivi. Mi rendo conto che questa è una rivoluzione, ma è la stessa rivoluzione concettuale che qualcuno in Europa comincia ad anticipare rispetto alle regole sugli aiuti di Stato. Quelle regole sono state immaginate per evitare posizioni dominanti in una condizione normale, ma vanno interpretate diversamente nel momento ni cui stiamo mettendo mano a risistemare l'intero sistema economico. Perché di questo stiamo parlando.

Viene in mente la proposta di escludere dal patto di stabilità le spese per investimenti green, accolta tiepidamente a Bruxelles. È una strada percorribile?

La prima versione del Green New Deal forse era un po' più ambiziosa da questo punto di vista rispetto a quella che è stata approvata. Capisco che ci sono punti di vista molto diversi. Ma alla fine stiamo parlando di un cambiamento profondo del sistema capitalistico. E non è un caso che un certo gruppo di economisti rifiuti questo modo di pensare, perché vorrebbe dire mettere in crisi quello su cui hanno costruito la loro vita. Oltre l'elemento dottrinale, diventa un problema personale. Faccio alcuni esempi. Insieme ad altri due economisti abbiamo scritto a Christine Lagarde proponendo che la Bce uscisse dagli investimenti in bond privati di imprese che inquinano. Ben prima del nostro appello il presidente della Bundesbank Weidmann ha detto che la neutralità della politica monetaria rispetto ai mercati è un principio che non va in nessun modo derogato. Se rileggete una lettera che alcuni mesi fa Draghi inviò a un parlamentare che già all'epoca chiedeva questo tipo di cose, vedete le unghie degli economisti della Bce sullo specchio. Aria fritta. Alla fine bisogna prendere una decisione: o credere, come dicono alcuni tra cui Nicholas Stern, che la crisi climatica è la dimostrazione del più grande fallimento di mercato della storia dell'umanità, o insistere nel solito modo di approcciare le cose. Questa è la questione di fondo, rispetto alla quale, non possiamo preoccuparci se lo 0,5% in più di investimenti green aumenta il debito pubblico. Perché invece forse evita il mezzo milione di morti che abbiamo in Europa tutti gli anni, che non sono contabilizzati nel Pil e, anzi, tendono ad aumentarlo perché prima di morire le persone vengono curate e quindi la spesa sanitaria sale. Ma siamo in un mondo che non è quello che dovrebbe essere.

Uno degli interventi che la politica nazionale sta iniziando ad affrontare, non senza difficoltà, è quello della riconversione dei sussidi ambientalmente dannosi. La legge di Bilancio istituisce una commissione ad hoc presso il ministero dell'Ambiente. Da dove si comincia? Come evitare reazioni di rigetto?

Distinguiamo la sostanza dalla comunicazione. La sostanza è tutta scritta nella legge 221 del 2015, il famoso Collegato ambientale su cui, benché io fossi allora ministro del Lavoro, ci sono le mie impronte digitali. La legge è chiara: i sussidi ambientalmente dannosi devono essere progressivamente smantellati e trasformati in sussidi allo sviluppo sostenibile. Punto. Se noi crediamo in questo, l'ultima cosa che la politica dovrebbe fare è fare cassa con quei soldi. O anche solo dare l'impressione di fare cassa con quei soldi. Ed è qui che anche questo Governo ha sbagliato drammaticamente. Le faccio un esempio: il Green New Deal nella legge di Bilancio stanzia 50 miliardi nei prossimi 15 anni. Diciamo che per l'anno prossimo ci sono tre miliardi. Quanto è l'aumento del gettito dalla lotta all'evasione? Tre miliardi. Immagini se il Presidente del Consiglio fosse andato in televisione a dire: noi adesso mettiamo 3 miliardi per ridurre quel mezzo milione di morti e lo facciamo pagare agli evasori. Sarebbe stata tutta un'altra partita. Oppure: abbiamo tolto i super ticket sanitari e li facciamo pagare agli evasori. Oppure togliamo tre miliardi di tasse a chi le paga perché è lavoratore dipendente e li facciamo pagare agli evasori. Sarebbe un altro film. Credo che questo Paese sia più pronto di quanto lo è mai stato nella sua storia a fare questo tipo di scambi. Ma deve essere chiaro che è uno scambio non a favore di cose poco sensate e non connesse, ma sulla base della legge 221 del 2015. Poi ci saranno sempre i Tir che bloccheranno le strade. Ma forse l'atteggiamento complessivo sarebbe diverso. E anche alcuni interventi come quelli sulle auto aziendali o la tassa sula plastica sarebbero stati vissuti in modo diverso. Invece l'impressione è che servissero per fare cassa.

È giusto che la cabina di regia sia al ministero dell'Ambiente? O sarebbe meglio a Palazzo Chigi?

Noi sosteniamo sempre che queste sono scelte politiche complessive. Dove sia, la cosa importante è che elabori delle proposte che poi vengano analizzate con una visione complessiva e non semplicemente di un ministero.

Da dove è preferibile iniziare? Non sempre ci sono ci sono soluzioni più virtuose immediatamente disponibili.

L'approccio inglese di cui le parlavo è un modo serio di affrontare la cosa. Avendo chiaro l'obiettivo, valutare come arrivarci. Il kerosene oggi non si può sostituire. Qual è il modo per ridurlo o accelerare gli investimenti su qualcosa che può far volare gli aerei al posto del kerosene? Non possiamo fare finta di niente. L'intervento dovrà essere compensato con qualche altra cosa in un'ottica di carbon neutrality. Non è che al 2050 improvvisamente non emetteremo più niente. Devono esserci dei meccanismi di compensazione.

Né si può tassare qualcosa che non possiamo sostituire.

Attenzione però. Questo ci porta a un ragionamento molto più complesso. Se le città saranno piene di auto elettriche invece che di auto a combustione interna, l'aria sarà più pulita ma le città resteranno invivibili. Basta guardare i calcoli sulla velocità media prevista: compreremo la macchina per stare fermi. Questo deve imporci una riflessione su un modello. Non possiamo immaginare di salvare il mondo senza un cambio di modello dei consumi. Sappiamo che per la qualità della vita il tempo passato nel traffico è all'ultimo posto. Lì la tassazione può essere utile per cambiare lo stile di consumo, con un meccanismo analogo a quello delle bevande gassate o delle merendine. Non dobbiamo pensare al sistema fiscale solo come un modo per orientare la scelta dei carburanti. Questo però ci porta a un'altra considerazione importante, su cui ho proposto al Governo di fare al più presto una riflessione: qual è il sistema fiscale ideale per il ventunesimo secolo? La mia battuta è che sembra che gli esperti economisti abbiano studiato solo l'esame di Economia 1, la Cobb-Douglas, capitale e lavoro. E non hanno studiato la “Clem” – capitale, lavoro, energia e materie prime. Alcuni hanno aggiunto anche la “D”, i dati. Qual è il sistema fiscale ottimale per un Paese che ha fatto la transizione? E quale quello per andare verso la transizione? Come diceva Jeff Mulgan, una delle teste d'uovo di Blair: cosa vorrà dire essere un grande Paese negli anni 2000? Avere un'alta qualità della vita. Nell'Ottocento voleva dire avere un grande territorio – e il sistema fiscale era basato sull'agricoltura, sulle terre. Nel Novecento voleva dire produrre tanto e consumare tanto – e il sistema fiscale è stato disegnato su Irpef e Iva. Se nel ventunesimo secolo essere un grande Paese vorrà dire assicurare un'alta qualità della vita, in un mondo globale, forse si dovrebbe dire: “non ho idea di come fai i tuoi soldi ma se usi la mia acqua, la mia aria, il mio terreno, allora questo è il club con un livello di fee molto alto, perché ti do una qualità molto alta. La risposta è quindi ridurre le tasse sul lavoro e aumentarle moltissimo in base alla quantità di materie che usi, a quanto inquini. Faccio un altro esempio: in un mondo a economia circolare, probabilmente si ha bisogno di più lavoratori per riciclare, e ciò nonostante si ridurrebbero i costi complessivi e si farebbero più profitti. Se si usa il Clup, il costo del lavoro per unità di prodotto, come indicatore di competitività, vuol dire che non si è capito niente. Si avrà dall'indicatore l'informazione sbagliata. I criteri con cui valutiamo normalmente le imprese e la contabilità sono il costrutto di un modo di vedere il mondo. In particolare, il mondo di vedere il mondo in cui le risorse e la crescita erano infinite.

Il ministro dell'Istruzione Fioramonti ha affermato che Eni va riconvertita radicalmente e in tempi brevi. Se lei dovesse dare un mandato al nuovo vertice, quali sarebbero i primi punti?

Comincerei col dirgli di guardare la loro pubblicità, in cui c'è una signora parla di economia circolare. Vorrei capire quanto del bilancio Eni è fatto al momento di biocarburanti e altre cose simili. La domanda naturalmente è: beyond petroleum è una chiacchiera o è una possibilità? Non voglio fare confronti ma si narra che quando Starace è andato all'Enel e ha trovato 5 miliardi di investimenti sul carbone abbia detto: “qui zero e 5 miliardi sulle rinnovabili” e quello è stato il punto di partenza per fare dell'Enel un campione anche internazionale. La domanda è dunque: qual è la prospettiva di imprese come queste? C'è un'altra impresa petrolifera italiana (IP, ndr) che si è detta: non so se gli automobilisti in futuro useranno ancora il petrolio ma è probabile che comunque si dovranno comunque fermare da me, le mie stazioni di servizio continueranno a esistere. Come posso trasformarle in un luogo che mi assicuri un business? Mi ha colpito, è un ragionamento molto forte: ho capito dove il mondo sta andando da qui a trent'anni e mi adatto. Così come Google l'ha capito prima degli altri. Il mondo è pieno di imprese che hanno deciso di sterzare, la domanda che farei è di valutare nel lungo termine rischi e opportunità, questo per qualsiasi imprenditore, pubblico e privato. Non possiamo continuare a dire dobbiamo superare lo shortermismo e non usare il periodo della transizione o della pretransizione per domandarmi che farò fare ai miei 30.000 lavoratori.

Lei è a capo anche della Commissione sull'economia non osservata, una bella fetta dei 3 miliardi attesi dalla lotta all'evasione viene dalle frodi carburanti. Ha avuto qualche intuizione su questo fenomeno, sulla sua entità? C'è la giusta attenzione?

L'attenzione è cresciuta molto nell'ultimo biennio ed è una delle ragioni per cui abbiamo deciso nel rapporto di dedicarci in particolare a questo aspetto. Fino a due anni fa non stimavamo l'entità dell'evasione delle accise, quindi anche noi abbiamo dovuto coprire questo “buco”. Le metodologie possono essere migliorate, sono sempre stime statistiche ma indubbiamente credo che l'attenzione adesso sia molto più forte.

ASviS ha proposto anche una Legge annuale dello sviluppo sostenibile. Viene in mente quella sulla concorrenza, che ha avuto dei problemi. Come evitare un percorso simile?

Mi rendo conto che tra la realtà e l'ideale in politica ci sono tantissimi possibili ostacoli, l'idea di una legge annuale sullo sviluppo sostenibile nasce dal tentativo di rendere più coerenti gli interventi che riguardano le diverse dimensioni dell'Agenda 2030, invece che saltare sul solito decreto legge che passa. Tentare di avere un approccio più strategico e coerente. In realtà l'obiettivo si potrebbe anche raggiungere se il Governo e il Parlamento accettassero un altro nostro suggerimento, cioè che nelle relazioni illustrative dei vari provvedimenti ci sia una valutazione d'impatto atteso. Ma fatemi tornare all'esempio che facevo della carbon neutrality al 2050 e il modello inglese: veramente possiamo pensare di fare la transizione di interi settori di attività economiche intervenendo con commi sparsi nelle leggi che passano in Parlamento? L'alternativa nel migliore dei casi è il rischio di contraddizioni, talvolta anche di errori. Capisco che accettare la logica della complessità sia complesso ma se l'alternativa è prendere decisioni in modo confuso o non prenderle, bisogna provare comunque a prendere altre strade. Ovviamente se l'Europa andasse, come abbiamo suggerito, verso un semestre europeo basato sui Sdg (obiettivi Onu sullo sviluppo sostenibile, ndr), se accanto alla legge di Bilancio prevedessimo una legge annuale sullo sviluppo sostenibile e se questa, come la legge di Bilancio affronta soprattutto il primo volume del Def, affrontasse il secondo, che normalmente nessuno guarda, quello del piano nazionale delle riforme, forse il Parlamento ritroverebbe un ruolo importante, perché avrebbe tempi per lavorare non sotto la tagliola delle scadenze, e sarebbe un modo per affrontare problemi molto complessi con una legislazione complessa.

Questo ci riporta al fatto che abbiamo un contesto politico molto deteriorato e una maggioranza poco amalgamata, ne è un esempio la maratona sul Bilancio. Molto dipende dalla maturazione del contesto politico e il vuoto nella qualità dell'azione legislativa sembra allargarsi.

Trovo abbastanza sorprendente che ci stupiamo che questo accada con una maggioranza nata in due settimane, senza un lavoro preliminare, non dico senza un contratto di governo ma senza neppure un patto alla tedesca. Mi sarei stupito se la legge di Bilancio fosse stata disegnata e realizzata facilmente, mi sarei anche un po' preoccupato perché il Bilancio ha comunque una sua grande complessità. Però su questo dobbiamo stare molto attenti: quanta parte della legge è impattata veramente da queste discussioni che appassionano la Repubblica Italiana nelle ultime settimane? Gualtieri ha detto il 5%. Se fosse così saremmo di fronte a una colossale fake news collettiva, perché un 5% è “normale”, anche statisticamente. Lo vidi anche col governo Letta, che era un governo di grande coalizione, in cui avevamo avuto mesi di preparazione della legge di Bilancio. Quando segnalai al Presidente del Consiglio il problema dell'”assalto alla diligenza” lui rispose: “siamo stati brevi a contenerlo in un miliardo”, che è un modo corretto di guardare le cose. Attenzione a non enfatizzare, se avessi visto battaglie pesanti su alcuni aspetti caratterizzanti di questa manovra, come il Green New Deal, mi sarei preoccupato.

A proposito di Green New Deal, le norme sono abbastanza articolate e di complessa attuazione, tra provvedimenti applicativi e comitati.

E' sempre così, ma ho visto da parte del Tesoro e del ministro Gualtieri una determinazione che non avevo mai visto. E' stato fondamentale che queste cose siano venute dal Mef, non dal Mise o dal ministero dell'Ambiente e questo può essere un cambio di passo.

In questo contesto come vede il suo ruolo? In ASviS ci sono molti corpi intermedi, che negli ultimi anni sono diventati un bersaglio del populismo o comunque di un modo leadersitico di fare politica. Vede nel ruolo di ASviS e suo personale un lavoro “prepolitico”, o comunque propedeutico a una nuova esperienza politica?

Non mi è chiaro perché dica prepolitico. Noi svogliamo una funzione, credo importante, politica, non partitica. Se si guardano i 29 punti programmatici di questo Governo, i nostri temi ci sono come mai in precedenza e credo che una delle ragioni del successo di ASviS furono proprio le critiche ai corpi intermedi. Non sono sicuro che ASviS sarebbe nato se non ci fosse stato quel tipo di attacco da parte di Renzi ai corpi intermedi, che ha stimolato in essi la voglia di dimostrare di essere diversi da come venivano dipinti. Continuo a considerare straordinaria questa esperienza. Il rapporto è veramente fatto con il contributo di centinaia di esperti. Una volta che ho omogenizzato il linguaggio e il testo, viene rimandato a tutti per verifica e sono molto pochi i casi in cui non ci troviamo d'accordo. Questo credo sia davvero uno straordinario contributo.

Il successo dell'associazione è testimoniato sicuramente anche dalla presenza del presidente Mattarella alla presentazione dell'ultimo Rapporto, un grosso riconoscimento

Certamente sì, come anche il fatto che il Presidente del Consiglio sempre più spesso citi questi temi nei suoi discorsi, penso recentemente all'intervento in Cdp. Ma questo sta avvenendo a livello anche europeo: tra poco sarò in videoconferenza con Bruxelles dove si discute su come calare nel semestre europeo gli Sdg, una proposta che personalmente ho fatto da alcuni anni e vederla al centro del dibattito è una grande soddisfazione. Sono convinto che anche la politica, anche grazie ai giovani ma non solo, si stia rendendo conto che questo è il momento in cui affrontare il cambiamento.

Lei fa parte anche del Club di Roma, famoso per la previsione del picco del petrolio che si è rivelata sbagliata. Erano sbagliate le assunzioni, ci fu una sottovalutazione della componente tecnologica?

Ci si è concentrati molto sulla questione del picco ma se si va a vedere uno degli scenari (aggiornati nel 2004, ndr), che prevedeva un “collasso” al 2030 quando la popolazione avrebbe raggiunto gli 8 miliardi di persone, è impressionante l'aderenza con i dati degli ultimi quarant'anni. Il punto cruciale del Club all'epoca – tra l'altro leggendo quei libri decisi di fare l'economista, per tentare di evitare quell'evoluzione – è che l'interazione e l'integrazione tra economia, società e ambiente era il punto chiave. La reazione del mondo, che disse che i mercati e la tecnologia avrebbero risolto i problemi, ha dimostrato che il Club era nel giusto. Con tutte le cose straordinarie che in questi cinquant'anni sono state fatte e che erano previste esattamente in quelle curve, che mostravano esattamente il boom del Pil e del benessere. E' questo tema del pensiero integrato il più grande contributo del Club e che ora si sta riscoprendo.



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